Quando si muove Bruce Dickinson di solito, lo fa per un motivo, avendo in mente qualcosa di importante e grandioso. L’artista crea per se stesso e deve farlo, se poi la sua opera incontra il gusto di chi la subisce, allora tanto meglio. Questa parafrasi di una sua dichiarazione, comune a molti artisti, viene ottima per introdurre “The Mandrake Project”. Un progetto ampio ed importante che coinvolge la realizzazione di un racconto organico, dipanato tra fumetti, videoclip e naturalmente la musica. E che musica, dico io. Sgombriamo il campo dagli equivoci, ho sempre avuto l’ammirazione per Dickinson ed ho atteso questo disco con una certa smania. L’ho ascoltato molte volte, lasciandolo decantare per capire quanto sedimentasse, un discrimine critico a volte annacquato dall’abitudine degli ascolti. C’è tanto dentro, per essere uno che è sulle scene dalla fine degli anni 70, di sicuro molto di più di quanto ci sia negli ultimi papponi di casa Maiden. A partire dalla costruzione di tutto il progetto, i testi e le grafiche, tutto è connesso ed ha una sua importanza che non è ancora del tutto comprensibile. E meno male, in tempi in cui si viene guidati passo passo in tutto. Il non capire, farsi domande, ragionare sull’opera è un valore assoluto che stiamo dimenticando. E’ difficile separare gli intenti di questo album dal contenuto vero e proprio, la voglia di esprimersi e raccontare qualcosa di molto personale e in maniera elusiva, a cui bisogna prestare orecchio per comprenderla. Si capisce quanto abbia voluto divertirsi, liberarsi non solo dalla morsa di Harris, ma anche da quella dei suoi fan che avrebbero voluto una copia carbone di “Accident of Birth” o “Chemical Wedding” (quella c’è, si chiama Tyranny of Souls, battutone disumano nda). I momenti migliori sono esattamente quelle in cui si concede la libertà assoluta, sia questa il giocare con sonorità orientali, a tratti disco, l’osare riff durissimi e un cantato aggressivo: senza farla lunga, tutte robe che nei Maiden dell’Harris ormai cariatideo non sarebbero mai neanche uscite oltre i denti del buon Bruce. A tal proposito curiosa ed indicativa la versione personale e asciutta di “Eternity has failed”, già nota come “If Eternity should fail” su “The Book of souls”, riarrangiata e col titolo diverso, lievemente pessimista. Troppo bella per lasciarla in un disco loffio? Oppure riappropriarsi di un pezzo per realizzarlo come concepito originariamente, chissà.
Il disco è ottimo, sia per il coraggio e gli intenti nelle differenti forme espressive, un insieme di dieci pezzi di valore, sorretti da un Dickinson ancora in gran forma. Non so cosa si possa volere di più francamente.
Voto:
e mezzo!
L’assaggio del disco: “Afterglow of Ragnarok”