Il disco della settimana su Twitch: Cradle of Filth – Cruelty and the Beast


banner-disco-settimana-copiaOgni settimana sul mio canale Twitch inserisco un disco dalla mia collezione nell’inquadratura, ho deciso di scriverci due righe con una rubrica apposita. Se passate di là, salutatemisenza impegno. Certo, se non seguite il canale mi fate un po’ male ma vi adoro lo stesso. Per le puntate precedenti clicca QUI.

71dZXRlGTUL._AC_SL1500_Conosco bene la fama dei CoF, di Dani Filth e di tutto l’odio che si portano appresso. Sempre fregato meno di zero. A me quelle copertine, quelle photosession piene di vampirismo didascalico e soprattutto di bellissime modelle gothic, son sempre piaciute in modo esagerato. Figuriamoci quando uscì questo “Cruelty and the Beast” con quella copertina mostruosamente bella: ne fui catturato. Leggevo avidamente le interviste fiume senza aver mai ascoltato una nota della loro musica. La prima canzone che ascoltai della band inglese fu “Her Ghost in the Fog”, grazie al videoclip trasmesso nei soliti canali televisivi, citati nei capitoli precedenti di questa rubrica. Non mi dispiacque affatto, pur amando infinitamente di più altri gruppi a cui venivano accostati, impropriamente. La folgorazione la ebbi quando li vidi sul palco del Gods del 2001, quello con due palchi all’interno di un infuocato Palavobis. Roba da tortura messicana che chi c’era non dimenticherà mai. Due modelle nude ai lati del palco, non ricordo altro. Mi bastò per fare il passo. Oggi ho tutta la discografia, compresi gli album super mosci come “Thornography”. “Cruelty…” è speciale, fa parte del poker dei miei preferiti dei Cof, insieme a “Dusk…”, “Darkly Darkly…” e “Midian”. E’ un concept album, tutto serve al racconto, a partire dalla copertina e dall’artwork nel booklet, stampato con caratteri così minuscoli che si faticava a leggerli già allora. Una storia succosa, adocchiata da molti altri gruppi, qui sviluppata con la giusta morbosità: come puoi narrare di una contessa serial killer che tortura e uccide giovani donne senza essere un minimo torbido? Dietro questo importante pacchetto esteriore esplode la musica naturalmente, un  Metallo feroce e di gran caratura, elegante persino. Il disco è ottimo, i CoF erano al top della forma, violenti e suadenti. Sound tiratissimo che incorpora riffoni figli degli Slayer e blast beat incazzati. Tastiere ed inserti raggelanti, atmosferici e impalpabili amalgamati con grande cura nell’insieme. Persino Dani in questo album non dispiacerebbe ai suoi detrattori, che comprendo benissimo.

Roboante e poetico, erotico e infingardo, scorre impetuoso come un fiotto di sangue scarlatto. 

Il disco della settimana su Twitch: Machine Head – Burn my eyes


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81zGt4mZhmL._AC_SX522_Erano i primi anni, quasi mesi, in cui ero diventato follemente metallaro e come ogni neofita cercavo di apprendere ed assorbire il più possibile. Leggevo sognando suoni e canzoni sulle riviste specializzate, senza sapere che per certi album avrei atteso anni per metterci le mani sopra, come ormai racconto spesso. “Burn my Eyes” non fu uno di quelli. Riuscii a trovarlo subito nei canonici negozi che visitavo ogni volta che potevo, dando vita a clamorose transumanze per accaparrarmi del nuovo Metallo. Mi colpì il clamore che scatenò il loro essere stati scelti dagli Slayer per il tour di “Divine Intervention”. Una band agli esordi che tira fuori un disco così potente e fresco, tale da piacere a gente come gli Slayer: una roba che era praticamente garanzia di qualità alle mie orecchie. Quella fu la ciliegina sulla torta in realtà, perchè per una volta non andai alla cieca verso l’acquisto dell’album: avevo ascoltato “A Nation on Fire” sul primo storico cd allegato a Thunder Magazine. Ero impazzito, mi piaceva quel dinamismo, quella carica incontenibile e la ritmica incalzante a cui non ero abituato affatto. Il disco, inutile dirlo, è una bomba disumana ancora oggi. Non c’è un pezzo sotto tono o trascurabile, persino “Real Eyes, realize, Real lies” è grandiosa nel suo incedere pastoso prima della corsa furiosa di “Block”. Sapete tutti che il disco successivo è un macigno pesantissimo che cambiava un po’ le carte in tavola, ponendo l’accento su ritmi lenti e chitarre spesse da far paura. “Burn my Eyes” è più accessibile, più arioso nella sua immensa incazzatura ed urgenza, sfogo necessario a sopportare i primi anni 90 in cui tutto sembrava precario e privo di senso. Solo la tripletta iniziale cancella qualsiasi cosa sappiate dei Machine Head odierni, ribalta completamente il valore di album ottimi come “The Blackening” o “Into the Locust”. Disco epocale, insieme al successivo, faccia oscura di una medaglia che ha avuto nel corso degli anni troppe facce.

Entheos – Time will take us all


a1201304143_10Un principio inequivocabile dell’esistenza umana è che non si sfugge allo scorrere del tempo, nessuno hai mai nemmeno pensato di poter affermare il contrario. E’ uno degli argomenti dove si rischia di essere assai banali, eppure cela un’amara consapevolezza che può fare male se spogliata dagli occhi del luogo comune. Gli Entheos se lo prendono il rischio, andando a comporre un insieme di canzoni che lasciano il segno e provano ad uscire dalla veloce consunzione odierna, “l’eterno presente che capire non sai”, diceva qualcuno decenni fa. L’illusione di restare, di lasciare un segno, oggi ulteriore luogo comune quasi più ingombrante del primo. Il disco, come orgogliosamente affermato dal gruppo, è pensato per essere ascoltato nella sua interezza, alla faccia di tutti quelli che pubblicano un pezzettino alla volta o un EP miserrimo, una prima dichiarazione d’intenti che già bendispone. Un viaggio sentito, dai testi irrinunciabili poggiati su una musica eccellente, ricca di tecnica mai fine a se stessa. Un Death che si ammanta di contorcimenti sonori e melodia, voci pulite e giri di basso sgommoni come da copione. Guai però ad aspettarsi un pappone masturbatorio indigeribile con dei testi rubati a trattati di fisica o che so io. Gli Entheos riescono a modulare le pulsioni più infingarde proprie di ogni grande musicista sottomettendo questo florilegio di tecnica a canzoni che carpiscono l’orecchio e il cuore di chi ascolta. Un plauso alla cantante Chaney Crabb capace di variare il suo efficace cantato estremo da suoni ultra gutturali a urla disumane, inserendo quando opportuno una delicata voce pulita. Non sono secondi sia Navene Koperweis, polistrumentista già in forza a numerose band ameregane ed Evan Brewer (Fallujah tra i tanti) al basso nel creare un turbine di note che rifugge l’onanismo. Quaranta minuti sono sufficienti per costruire un album meraviglioso, ricco di calore umano e schiaffoni come si deve. Uno di quegli album con qualcosa da dire, non messo insieme tanto per andare in tour. Una sorpresa dalla leggendaria Metal Blade, alla quale va il plauso di essere riuscita a restare al passo con i tempi, riuscendo a sfruttare i social per promuovere le proprie uscite.

Voto: 

4stellee mezzo!

L’assaggio del disco: “I Am the Void”

 

Il disco della settimana su Twitch: Blind Guardian – Nightfall on Middle-Earth.


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91mcu7tDFzL._AC_SX425_Quanti ricordi passano attraverso questo album, l’ultimo davvero imperdibile dei Blind Guardian. L’apice di un crescendo inesorabile, totale. Ricordo che appresi l’esistenza del Silmarillion proprio attraverso le interviste di Luca Signorelli nei periodi pre e post uscita del disco, degli scritti preziosi ricchi di domande mirate ed intelligenti, con risposte di pari livello. Esperti che parlavano di Tolkien e Metallo in maniera profonda e concreta, cosa che mi spinse finalmente a prendere in mano l’opera che aveva ispirato un disco che sembrava epocale. E lo è.  Ascoltandolo si capisce quanta passione ci abbiano messo dentro, ogni nota è un tributo vero ad un’opera complessa, forse non completamente “finita”, come il Silmarillion. Non ci sono riempitivi, neanche mezzo. Ogni pezzo è qui per un motivo, ogni intro deve essere esattamente com’è. Il sound è il chiaro marchio di fabbrica dei Blind Guardian post “Somewhere Far Beyond”, soprattutto la meravigliosa e paracula “Mirror Mirror”. Quasi tutti gli altri brani presentano una leggera complessità in più, niente di invalicabile eppure qualche ascolto ulteriore è necessario onde dipanare con cura il profluvio di Metallo che ne scaturisce. E dopo aver letto il libro, cercare di capire come collocare i testi, accorgersi di quanto la musica in “The Curse of Feanor” o “Time Stands Still (at the Iron Hill)” sia quella giusta, la migliore possibile per accompagnare eventi di quella portata. Forse per questo alcuni gli preferiscono i due precedenti, più “lisci”, meno impegnativi. Eppure nelle tracce di “Nightfall”, nei mille rivoli delle sovraincisioni, si cela lo spirito più puro ed alto dei Guardian.