The Beyond /9: Prey


Immaginare personaggi al di fuori del contesto per il quale sono stati concepiti è una divagazione narrativa cara al Cinema. Un pretesto usato spesso per poter parlare d’altro e dare suggestioni e sensazioni diverse allo spettatore che ha già chiaro un vissuto di quei personaggi. “Prey” rientra facilmente in questo schema. Un film dove il cacciatore per eccellenza, la bestia letale che non si ferma davanti a niente pur di fare sua la preda, incontra quelli ritenuti dalla cultura popolare tra i più grandi cacciatori di sempre, i Nativi Americani.

La protagonista è una adolescente che vuole diventare una cacciatrice invece di badare alle altre faccende altrettanto importanti per la sopravvivenza della tribù. Un cane super intelligente al fianco e via sulle orme del fratello e gli altri compagni di caccia.

“Sì’, mo’ da un’impronta capisci da quante ore so’ passati. Ma chi sei Tiger Jack?”

Il regista dello splendido “10, Cloverfield Lane” stavolta abbandona le scene claustrofobiche tutte in interni, allarga lo sguardo e la macchina da presa sulle ampie distese delle lande selvagge americane, concedendosi il lusso di sfogare la voglia di immergere lo spettatore in una Natura incontaminata e allo stesso tempo letale. I didascalici momenti in cui si mostra la catena alimentare in CGI sono piuttosto esplicativi in tal senso. Purtroppo per lui e per noi, non emerge mai questa pericolosità, questo equilibrio di sopravvivenza labile e precario. Non si può costruire una scena di tensione sapendo già che non porterà mai ad un risvolto veramente drammatico e definitivo. Ed il film ne è pieno.

La narrazione già esile di suo, ondeggia e si divide senza grandi raccordi tra momenti documentaristici della vita nella tribù, anche questi appena accennati, e la vicenda della protagonista. Una storia spezzettata e priva di mordente, alla quale si fatica a trovare un senso vero oltre al puerile femminismo sbattuto in faccia allo spettatore. Un personaggio che non cresce, non evolve e non coinvolge. L’unico cambiamento notabile: lei non prende un animale col suo tomahawk manco per sbaglio. Lega una corda al manico dell’arma e diventa una macchina di morte (sempre fuori dallo schermo, manco a dirlo). Questo può succedere in un videogioco, non in un film. A tal proposito, le scene d’azione sono veramente mal concepite e girate con ‘sta macchina a mano che almeno in un’occasione diventa pure una soggettiva che confonde lo spettatore, poichè non c’è nessun altro a guardare la scena che abbiamo appena visto.

Il grande confronto atteso dall’inizio del film si risolve tutto in dieci minuti per i Nativi, quindici per i Trappers(non quelli di adesso purtroppo) e pochi minuti per la protagonista, tra l’altro con un escamotage dozzinale.

Troppo poco, con tutta la buona volontà con cui l’ho guardato, per ben due volte. Nella seconda già insostenibile, per inciso. Una pellicola leggerina, che può dare qualche brivido in più a chi è più giovane, al quale consiglierei comunque di rivolgersi al primo, storico capitolo per capire come creare tensione e attaccamento a dei personaggi che stanno anche sulle palle.

Ultima considerazione: il sangue digitale è la morte del Cinema. Comodo, pulito, virato al nero, perchè altrimenti un impalamento diventa troppo violento. Vi dovete sporcare di sangue finto, di marmellata, di pomodoro, di quello che volete ma lasciate perdere il digitale. Altrimenti tornate a girare i film in interni, così restate intonsi e pulite pure negli angoli.

“Che cerchi?” “Lati positvi” (ps lei è brava brava)

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